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ARMAGEDDON

«Mi rivolgo a voi stasera, non in veste di presidente degli Stati Uniti, non come leader di una nazione, ma semplicemente come essere umano. Ci troviamo ad affrontare la più spaventosa delle prove. Nella Bibbia quel giorno è chiamato Armageddon, cioè la fine di tutte le cose. Eppure, per la prima volta nella storia del nostro pianeta, il genere umano possiede i mezzi tecnologici per evitare la propria estinzione. Tutti voi che ci accompagnate nella preghiera dovete sapere che tutto ciò che è possibile per evitare il disastro verrà fatto»

Discorso del presidente degli Stati Uniti in Armageddon di Michael Bay.

Se c’è qualcuno che sta facendo «tutto ciò che è possibile» per evitare un «disastro» chiamato no deal, quel qualcuno è Richard Branson, patron di Virgin. L’ultima trovata è un appello pubblicato sul sito della compagnia: «Il Regno Unito è pericolosamente vicino al disastro su larga scala che sarebbe un'uscita dall'Unione europea senza accordo. In una rara dichiarazione congiunta, la Confederazione dell'industria britannica e i sindacati vedono una “emergenza nazionale”. Come investitore nel Regno Unito, non potrei essere più d'accordo. È giunto il momento per il governo britannico di ripensare il suo approccio». E Branson non risparmia forti critiche alla premier Theresa May: «In una fase di profonda crisi nazionale per il Regno Unito, non c'è alcun segno della leadership inclusiva che una crisi di questo tipo richiederebbe. Dando priorità al suo partito rispetto al paese, il Primo Ministro non agisce più nell'interesse nazionale». Nel fine settimana, a Londra, c’è stata una manifestazione per chiedere un nuovo referendum proprio sul fronte Brexit. Anche per Branson il governo britannico «deve dare ai cittadini l'ultima parola», perché «le opinioni delle persone non sono mai statiche […]. E possono cambiare». Altrimenti bisogna «revocare l'articolo 50 e ricominciare il processo da zero. C'è poco tempo per evitare un disastro multigenerazionale». Gli operatori, in generale, non temono un Armageddon ma prevedono un accordo in extremis nelle prossime settimane, perché un no deal non porterebbe benefici a nessuna delle parti in causa. Tuttavia, con il passare del tempo, la tensione comincia ad aumentare e l’incertezza a pesare.

A livello macro, venerdì scorso, si sono schiantati sui mercati come una pioggia di meteoriti i deludenti dati preliminari relativi all’Eurozona, trascinando giù tutti i listini principali. In particolare l’indice PMI composito è sceso a 51,3 punti dai 51,9 di febbraio. Si tratta del valore più basso da due mesi. Le criticità risultano ancora più lampanti guardando l'indice Pmi sulle imprese manifatturiere: in questo caso si passa a 47,6 punti a marzo dai 49,3 del mese precedente (secondo Markit è il dato più basso da 71 mesi a oggi). I segnali di rallentamento dell’economia hanno quindi suscitato preoccupazioni tra gli operatori e il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ha cercato di ristabilire la calma sottolineando che non c’è recessione nell’area euro.

La frenata del Vecchio Continente è comunque un segnale di allarme, anche per gli Usa: la Federal Reserve ha indicato il rallentamento globale come il primo pericolo per gli Stati Uniti. La perdita di slancio degli States è confermata dall'indice Pmi manifatturiero di marzo che si è attestato a 52,5 punti dai 53 di febbraio. Come precauzione la Fed ha confermato il congelamento dei tassi d’interesse per il 2019.  Ma oltreoceano i riflettori si sono accesi anche sui Treasury Bond: la curva dei rendimenti si è invertita, un segnale che storicamente preannuncia guai per l’economia. In particolare, il divario tra il costo di finanziamento dei titoli di Stato americani a 3 mesi e a 10 anni si è ridotto sensibilmente.

A risollevare leggermente gli animi ci ha pensato l’indice Ifo sulla fiducia delle aziende in Germania, pubblicato lunedì 25. Il risultato è salito a 99,6 punti a marzo contro i 98,5 di febbraio, ed è anche al di sopra delle stime di consenso (98,7). Una notizia positiva che però, da sola, non è bastata a invertire la tendenza: ieri molti listini europei hanno chiuso con il segno meno, mentre il FTSE MIB è rimasto sulla parità.

C’è infine la questione dei dazi Usa-Cina. Dopo i progressi delle scorse settimane al momento la situazione appare statica. I mercati sperano presto di vedere un accordo definitivo tra le due superpotenze: sarebbe una possibile occasione per tentare di far cambiare umore agli investitori. Un umore su cui hanno influito i segnali negativi dell’andamento dell’economia mondiale. E proprio per questo i governi e le istituzioni devono adoperarsi al più presto per evitare qualsiasi potenziale disastro.

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