FULL METAL JACKET
“Sergente Hartman: Se voi signorine finirete questo corso... e se sopravviverete all'addestramento... sarete un'arma! Sarete dispensatori di morte e pregherete per combattere! Ma fino a quel giorno... Non siete neanche fottuti esseri umani, sarete solo pezzi informi di materia organica anfibia. Qui non si fanno distinzioni razziali, qui si rispetta gentaglia come negri, ebrei, italiani o messicani! Qui vige l'eguaglianza: non conta un cazzo nessuno! I miei ordini sono di scremare tutti quelli che non hanno le palle necessarie per servire nel mio beneamato corpo! Capito bene, luridissimi vermi?!
"Questo è il mio fucile. Ce ne sono tanti come lui, ma questo è il mio. Il mio fucile è il mio migliore amico, è la mia vita. Io debbo dominarlo come domino la mia vita. Senza di me il mio fucile non è niente; senza il mio fucile io sono niente. Debbo saper colpire il bersaglio, debbo sparare meglio del mio nemico che cerca di ammazzare me, debbo sparare io prima che lui spari a me e lo farò. Al cospetto di dio giuro su questo credo: il mio fucile e me stesso siamo i difensori della patria, siamo i dominatori dei nostri nemici, siamo i salvatori della nostra vita e così sia, finché non ci sarà più nemico ma solo pace, amen". [Il credo del fuciliere]
Tratto da “Full Metal Jacket” un film di Stanley Kubrick.
Venerdì notte, Usa, Gran Bretagna e Francia hanno lanciato 105 missili su tre obiettivi in Siria. Guerra lampo, guerra intelligente. Guerra. Gli Usa annunciano già di aver colpito le basi di armi chimiche di Assad. Il Pentagono rivendica l’obiettivo, ma ammette di non sapere se Assad ne possegga delle altre. I mercati temono un’escalation militare, in un momento in cui le Borse erano già volatili e dopo un lungo rally, da più parti si cercano scuse per tirare il fiato.
Rumors governativi dicono che l’attacco è stato voluto venerdì notte, dando agli investitori due giorni di tempo, per digerire che non ci saranno escalation. Ma la verità è che nessuno può saperlo. Assad reagirà? Mosca starà a guardare? Dipenderà anche dagli obiettivi colpiti. Da anni parlano di missili intelligenti, eppure in passato sono stati molto distratti.
Gli storici dei mercati sono corsi tutti indietro ad analizzare cosa è successo sui principali indici nei periodi di guerra. Grenada ’81; Panama ’89; Guerre del Golfo ’91 e ’93; Afghanistan ’01; Libia ’11. Nel mese antecedente lo scoppio del conflitto la Borsa Usa ha perso in media lo 0,6%. Successivamente, nei primi trenta giorni di guerra, il listino è invece cresciuto del 4%. Il rialzo, poi, è arrivato fino alla media del 7,2% sull’arco dei 6 mesi. Insomma: nel periodo di attesa del futuro conflitto i corsi azionari calano. Poi, nel momento in cui la guerra scoppia la Borsa alza la testa. Pesa più l’incertezza se ci sarà un conflitto che non il conflitto stesso.
Queste analisi trovano il tempo che trovano. I mercati ci hanno sempre sorpreso spiegandoci, con i numeri, che ogni volta è nuova. In passato non ci sono mai state escalation, gli indici non arrivavano dai massimi di periodo, il peso in Borsa delle società legato al mercato della guerra era decisamente maggiore di adesso, il fronte Usa era molto più compatto di come non appare oggi, la Siria è una polveriera di religioni, geopolitica (tra Russia Europa, Medioriente e interessi Usa), fortissima vicinanza all’Europa. A questo, aggiungeteci, che gli Stati Uniti stanno conducendo già un’altra guerra sui dazi con la Cina, che approfitterà della situazione e, che, sul lato finanza, le banche centrali sono pronte a sterilizzare l’enorme liquidità mentre la dinamica del deficit Usa preoccupa. Dopo questi ragionamenti appare chiaro che il cuore del problema è uno solo: se il conflitto rimarrà circoscritto temporalmente e soprattutto geograficamente. Il secondo aspetto che preoccupa da tempo i mercati, è la strategia di fondo di Trump. Esiste una strategia? Il presidente americano alza i toni , per ottenere ciò che vuole, ma è pronto ad abbassarli subito dopo o è un guerrafondaio?
Questo dubbio sta circolando tra le sale operative con insistenza. L’economista Keynes, pacifista pragmatico era combattuto sulla convenienza economica delle guerre, si chiedeva se era lecito cominciarne una senza interrogarsi se la futura pace sia migliore o meno di quella attuale; e se era ragionevolmente possibile prevedere il buon esito di una guerra. Di tutti gli investimenti quello che gode del maggiore moltiplicatore keynesiano è nel settore armi. I missili non solo si distruggono e “vanno ricostruiti” ma disintegrano altre attività che a loro volta vanno ricostruite. Su questa dinamica iniziano a nascere un po’ di interrogativi, sul quando, sul come , su chi è il beneficiario e soprattutto sui costi. Oggi non è il passato, e sui listini pesano più le società tech che quelle delle armi.
A noi le guerre non piacciono perché non ci chiediamo se i listini sono saliti o meno nei periodi di guerra ma se siano saliti di più senza guerra. Amiamo i mercati liberi e le guerre causano sempre degli ostacoli ai capitali, alle idee, alle persone. Abbiamo un’ottica di crescita, nel breve, medio e lungo periodo, le guerre rompono quest’armonia. Il nostro migliore amico non è il fucile è la moneta intesa come una ricchezza che porta frutto e non uccide. Quindi certo dagli investimenti nel settore armi nasceranno idee come lo è stato per internet e molto altro. A noi oggi interessano quelle società che sapranno trasformare queste idee in crescita. Ci attendiamo mercati volatili, petrolio e oro in rialzo, tensioni sulle valute. Le cavalcheremo in un’ottica di crescita del valore.